Breve Storia della Comunicazione di Moda

Il mondo della Moda sta cambiando lingua
In copertina. Da sx: Gisele Bundchen per Versace P/E 2009; Brunello Cucinelli A/I 2017-18; Enam Asiama per Blanc Magazine Issue 11 – Photography: Masha Mel; Fashion Editor: Oliver Vaughn; Set Design: Madeleine Hunter; Hair: Wilson Fok at Eighteen Management; Makeup: Michelle Webb; Styling Assistant: Ruben Jean
C’era una volta… il fashion system. Un mondo intrigante, scintillante e dorato, nel quale modelle altissime, bellissime e magrissime calcavano le passerelle di Milano, Londra, Parigi e New York.
Ogni anno i brand di moda si davano battaglia a colpi di sfilate, press day, campagne pubblicitarie e interviste farneticanti a eccentrici direttori creativi in pieno delirio di onnipotenza.
Perché stiamo parlando al passato? Forse non ci sono più sfilate? O forse i direttori creativi sono diventati simpatici? Niente di tutto questo.
Qualcosa di tragico e, si spera, irripetibile è successo. Per la prima volta, dalla Seconda Guerra Mondiale il mondo si è fermato e, con lui, anche l’industria della moda.
La pandemia di COVID 19 non ha solo cambiato il modo di fare industria, riconvertendo la produzione verso il confezionamento di presidi medici, ma ha anche mutato radicalmente il modo di pensare la moda e le collezioni.
Giorgio Armani, in una lettera inviata a WWD in data 3/04/2020 delinea lo scenario futuro di questo settore:
Per anni ho avanzato le solite domande durante le conferenze stampa post-sfilata, domande spesso rimaste inascoltate o considerate moraliste. L’emergenza attuale mostra che un attento e intelligente rallentamento sia l’unica via d’uscita. È una strada che finalmente riporterà valore al nostro lavoro e che farà in modo che il cliente finale ne percepisca l’importanza.
Il declino del fashion system come lo conosciamo è cominciato quando il segmento del lusso ha adottato le modalità operative del fast fashion, mimando questo sistema nella speranza di vendere di più e dimenticandosi che il lusso richiede tempo per essere raggiunto e apprezzato. Il lusso non può e non deve essere “fast”. Non ha senso che una delle mie giacche o abiti sopravvivano nei negozi solo tre settimane prima di diventare obsoleti, rimpiazzate da nuovi abiti non molto diversi. Io non lavoro così e trovo immorale lavorare così.
Ho sempre creduto in un’idea di eleganza senza tempo, che non è solo un preciso codice estetico, ma anche un approccio al disegno e alla realizzazione dei capi. Per la stessa ragione trovo assurdo che nel bel mezzo dell’inverno, nelle boutique troviamo solo abiti in lino, mentre i cappotti in alpaca ci sono in estate, per la sola e semplice ragione che il desiderio di acquisto debba essere soddisfatto immediatamente.
Giorgio Armani, An Open Letter to WWD, 04/03/2020
Secondo re Giorgio, dunque, siamo di fronte a una svolta epocale, che riporterà le persone a riappropriarsi dei valori di un approccio molto più slow, più ragionato, più sensibile.

Ma siamo proprio sicuri? È davvero possibile che un evento, per quanto traumatico, cambi radicalmente il modo di pensare il lavoro all’interno di un’industria multimiliardaria come quella della moda?
Per ora, l’unica cosa di cui siamo certi è che il modo di comunicare il fashion sta cambiando: la moda, cioè, sta adottando un linguaggio molto diverso rispetto a prima dello scoppio della pandemia.
Questa dinamica, in effetti, non è cosa nuova. Già in passato, in concomitanza con il tramonto di eventi sconvolgenti la moda aveva cambiato approccio a partire, proprio, dai criteri comunicativi.
Ma procediamo con ordine
IL MODELLO ASPIRAZIONALE
La comunicazione post Seconda Guerra Mondiale
È il 1939, le truppe naziste invadono la Polonia e ha inizio la Seconda Guerra Mondiale.
L’industria della moda, a quel tempo quasi esclusivamente concentrata a Parigi, non subisce un grande cambiamento, ma un semplice dislocamento in favore di Berlino.
Col passare degli anni, tuttavia, le politiche di crisi e il razionamento dei tessuti mettono gravemente in ginocchio il settore dell’haute couture. L’abbigliamento femminile si semplifica molto e, al cessare della guerra, vive un periodo particolare: da un lato si era fermato a un gusto austero tipico del periodo bellico, fatto di spalline importanti, gonne lunghe e strette, grossi cappelli realizzati con scarti tessili, dall’altro il panorama creativo parigino aveva pochissimi punti di riferimento a causa della chiusura della maggior parte delle boutique. Si percepiva un vibrante desiderio di sentire nuove voci e di assistere a una rinascita della creatività.
Roger Schall, Eleganza, 1941
Cavalca quest’onda Christian Dior il quale, nel 1947, disegna quello che, diventerà la silhouette più riconoscibile di quel periodo: il New Look. Monsieur Dior identificò un bisogno intenso tra le donne del Dopoguerra: quello di sentirsi nuovamente femminili, nuovamente belle e di poter tornare a sognare.

Questo bisogno è ben esplicitato, per Dior, da Yves Saint-Laurent il quale, forte della nomina come direttore creativo, imposterà un lavoro che getterà le basi per la moderna idea di comunicazione come elemento fondamentale per la diffusione di un sistema di valori proprio di ogni brand. Nel 1955 è emblematico, in questo senso, il servizio fotografico Dovima with elephants, scattato da Richard Avedon. Queste immagini fanno la storia: viene mostrato un vestito di uno stilista famoso, indossato da una modella famosa, inserita in un contesto fantastico e quasi onirico. Ciò porta, per la prima volta, la comunicazione di moda verso un’idea di modello aspirazionale: il fatto di vedere quella donna bellissima e famosissima, in un vestito da sogno e in un set del genere porta chi guarda ad aspirare a quel mondo e quindi a possedere l’unica cosa che è consentito avere: il vestito. Questo servizio getta le basi a una tipologia di comunicazione che è sopravvissuta per tutto il secolo scorso, evolvendosi e modificandosi a seconda dei codici dei brand che ciclicamente l’hanno utilizzato. La pubblicità, che fino a quel momento era stato un mezzo per comunicare qualità del filato e eccellenza artigianale, con il finire della guerra diventa uno strumento basato sull’immagine. Non si vuole più vendere l’abito, ma si vuole vendere il desiderio di identificazione e di emulazione.

Come evidenziato dal sociologo Vanni Codeluppi nel libro Sociologia della Moda, edito da Carocci nel 1997, illustra come, a partire dalla metà del secolo scorso, la moda abbia sviluppato principalmente 4 strade, a livello fotografico, per raggiungere questo obiettivo:
- La strada dell’autonomia – è la strada esclusivista per eccellenza: i colori sono neutri, lo sguardo vuoto, l’espressione assente, quasi di plastica. La posa è talmente innaturale da far sembrare gli arti staccati dal corpo, quasi come a paragonare le magrissime modelle a dei manichini: elementi inanimati che assumono valore solo grazie al vestito che indossano. Il messaggio generale è che l’abito rappresenti il valore più importante che il consumatore possa sperare di possedere.

- La strada dell’intimità – sempre esclusivista e autoreferenziale, questa strada inserisce la modella in un contesto, sempre freddo, ma ambientato: il risultato è una specie di “natura morta” molto glamour in cui l’interlocutore è del tutto ignorato e può solo ammirare la perfezione estetica della composizione, sperando, un giorno, di possedere un po’ di quella bellezza.

- La strada dell’inclusione – a differenza delle precedenti, in questo caso l’interlocutore diventa protagonista. La modella, sempre inserita in un mondo neutro, non è più caratterizzata dalla sick beauty da passerella, ma assume connotazioni più naturali, uno sguardo espressivo dritto in camera e una posa sì plastica, ma non innaturale. Il messaggio contenuto in questo genere di adv suggerisce una maggiore centralità dell’interlocutore, scrutato dal marchio che quasi lo invita a scoprire i propri prodotti.

- La strada della complicità – in questo caso vediamo la modella inserita in un contesto reale, con lo sguardo rivolto al destinatario, spesso col volto a tre quarti, suggerendo quasi un’idea di seduzione, di forte interesse. Il consumatore, centrale in questo caso, è sedotto dalla modella che lo chiama a sé e gli suggerisce un garantito successo nella sfera emotiva.

L’apoteosi della comunicazione aspirazionale si raggiunge negli Anni Novanta con Tom Ford che la sublima, traslando le campagne pubblicitarie delle sue Gucci e Yves Saint Laurent in veri e propri punti di riferimento dell’erotismo spinto ed esplicito. Altro esempio è Calvin Klein il quale, sempre in quel periodo, rende Kate Moss e Mark Wahlberg dei veri e propri sex symbol, grazie a campagne pubblicitarie intrise di eros.


Dopo la saturazione di uno stilema comunicativo, si sa, l’audience ha bisogno di vedere qualcosa di nuovo e di diverso. Gli anni Novanta fungono un po’ da catalizzatore per tutte quelle campagne pubblicitarie che puntano a mostrare modelle sempre più magre a un pubblico ormai assuefatto da immagini tutte uguali e poco differenziate.
Già a fine secolo, infatti, una nuova modalità espressiva comincia a farsi largo nel panorama della comunicazione di moda ed esplode definitivamente con un altro evento storico d’importanza epocale: l’11 settembre 2001.
IL MODELLO ISPIRAZIONALE
La comunicazione post 11 settembre
L’11 settembre è una data epocale che ha cambiato per sempre la percezione dell’uomo nei confronti della realtà. Un elettroshock che ha comportato un momento catartico collettivo.
Come confermato dal World Value Survey di Ronald Inglehart le persone, dopo quell’evento, hanno rivisto il loro consumismo sfrenato e resettato i loro desideri nei confronti di un comportamento d’acquisto più misurato che, per forza di cose, ha cambiato il rapporto del consumatore con il brand.
Il pubblico ha quasi improvvisamente perso interesse in una comunicazione che imponesse loro un modello a cui aspirare e che suggerisse che “comprare” fosse l’unico modo per essere felici. Il fruitore moderno è stato messo di fronte alla vulnerabilità dell’esistenza e ha ridimensionato i propri comportamenti.
Proprio in questo contesto sono emerse altre due modalità comunicative sempre teorizzate da Codeluppi:
- Rappresentazione à un pubblico più esigente ha bisogno di conoscere molto di più. Non basta far vedere un vestito e un bel corpo per attivare il desiderio, ma c’è bisogno di un contorno, di una storia, di un sistema di valori di marca da comunicare attraverso la pubblicità

- Empatia à un brand e una collezione vengono inseriti in un contesto onirico, poco reale ma che attiva la mente dell’interlocutore che si incanta nel ricercarne i significati nascosti

In questo contesto nascono alcune modalità espressive innovative e del tutto sconosciute prima di allora. I fashion film, per esempio: veri e propri cortometraggi, quasi privi di prodotto ma carichi di valori e di storia che hanno l’obiettivo di parlare al pubblico raccontando il mondo di marca e quasi dissacrando l’idea tradizionale di moda, celebrando il proprio heritage e limando ogni qualsivoglia dictat o imposizione. Molti i fashion film ormai considerati iconici: A Therapy, produzione del 2013 a marchio Prada, diretta da Roman Polansky e interpretato da Helena Bonham Carter e Ben Kingsley; Come Together: A Fashion Picture in Motion, Film H&M diretto nel 2016 da Wes Anderson e interpretato da Adrien Brody e Garth Jennings; Reincarnation, diretto da Karl Lagerfeld per Chanel con protagonisti Pharrel Williams e Cara Delevigne.
In questa situazione trova terreno fertile il mercato degli Influencer e dei leader d’opinione: persone comuni, consumatori apparentemente estranei dal mercato della moda con l’unico obiettivo di fornire gli strumenti per aiutare a comprendere il mondo della moda, scorporando e definendo i trend.

In questo processo, il consumatore si è ritrovato progressivamente al centro delle politiche comunicative di marca. L’avvento dei social network, inoltre, ha conferito ancora più importanza all’utente finale che ha trovato il modo di comunicare la propria opinione in tempo reale, in direct con il marchio. La progressiva presa di potere dell’utente di ogni età, sesso, etnia e orientamento sessuale ha fatto in modo che i valori espressi dalla maggior parte dei marchi espandessero il loro raggio d’azione verso un pubblico più ampio e sempre più desideroso di valori reali, sostenibili e universalmente “giusti”.
Da questo processo virtuoso sono nati progetti ad ampio raggio per supportare e aiutare le popolazioni nei Paesi in via di sviluppo; come Acqua for Life, il progetto charity di Giorgio Armani, brandizzato Acqua di Gioia che, dal 2010, ha messo a disposizione 5,5 milioni di euro e 880 milioni di litri di acqua potabile a ben 46 comunità sparse in tutto il mondo. O anche Ermenegildo Zegna che, dal 2018 ha collaborato con Cesvi, una delle più importanti associazioni umanitarie del nostro Paese, con l’obiettivo di stimolare, attraverso specifici programmi culturali ed educativi, una riflessione attorno al concetto di mascolinità, mettendo in discussione gli stereotipi e ispirando un nuovo senso di umanità tra i giovani in diversi paesi del mondo.
Acqua di gioia – Acqua for life Zegna e Cesvi – From A to Zegna #WHATMAKESAMAN
Non solo: da un po’ di anni, ormai, i fashion brands emergenti, gestiti da designer millennials, figli della globalizzazione e di un mondo profondamente interconnesso, hanno impostato il proprio frame creativo attorno alla propria interiorità multiculturale e al mondo di inclusione e integrazione nel quale sono cresciuti. Sono i casi di Wales Bonner, Stella Jean, Rêve e molti altri.
Wales Bonner Stella Jean, Yannis Vlamos, Vogue.com Reve
Inoltre a livello comunicativo, moltissimi colossi dell’industria occidentale hanno cominciato a cambiare radicalmente i messaggi contenuti nelle loro campagne. Gillette, ad esempio, nel 2019 ha presentato una campagna che ha profondamente ridefinito il payoff “il meglio di un uomo” che ha sempre accompagnato i celebri rasoi. Il brand si è interrogato su cosa effettivamente fosse il meglio di un uomo creando un video molto in controtendenza rispetto all’immagine maschile tradizionale, a sostegno della campagna #metoo.
Il marchio statunitense Ralph Lauren, in occasione della campagna primavera/estate 2019, ha analizzato il concetto di famiglia, da sempre il valore cardine delle campagne pubblicitarie del brand, approfondendolo non solo da un punto di vista visivo e commerciale, ma anche da un punto di vista valoriale, ragionato e inclusivo.
Altro esponente di questo movimento è il re del cashmere, Brunello Cucinelli, che ha sempre impostato il proprio linguaggio con l’obiettivo di valorizzare la sostenibilità dei filati e il rispetto delle materie prime naturali, di celebrare il lavoro delle proprie «Umane Risorse», di evidenziare l’importanza del territorio, ristrutturando, ad esempio, il borgo medievale Solomeo.
Memorabile, in questo senso, la campagna NO product del 2015 nel quale il brand umbro crea un’immagine meta pubblicitaria nella quale si valorizza il concetto di codice, analizzato dal punto di vista semiotico del termine.

Negli ultimi mesi questa tendenza alla comunicazione più solidale che autoreferenziale si è consolidata sempre di più, arrivando al suo apice proprio nel 2020, allo scoppio della pandemia di COVID-19
IL MODELLO SOLIDALE
La comunicazione post COVID-19
Quello che sta succedendo in questo periodo, di pandemia globale e di forte incertezza sul futuro ha portato a consolidare questo processo di solidarietà e aiuto reciproco: stiamo esperendo un nuovo modello di vita, molto più incentrato sul benessere che sul profitto.
A questo proposito ha parlato il filosofo Martin Hägglund intervistato da Michele Neri nel numero di aprile 2020 di Vogue Italia:
La pandemia non ha fatto altro che rendere dolorosamente chiaro un problema preesistente. Da una parte sosteniamo che solidarietà e benessere collettivo siano i valori più importanti. Dall’altro viviamo in un sistema economico, il capitalismo, in cui non è permesso trattare l’altro quasi come fosse parte di noi, anzi, l’economia ci costringe a considerarlo alla stregua di un mezzo per produrre profitto. Per il capitalismo conta che produciamo e consumiamo, non che realizziamo la nostra umanità; il benessere non ha un valore economico. Già con la crisi climatica abbiamo visto le conseguenze di un’economia che privilegia il profitto sul benessere. Con la pandemia, un cambio radicale è ancora più visibile.
Sempre nello stesso numero di Vogue Italia, è contenuta anche una riflessione sul tema comunicazione di moda da parte del sociologo Francesco Morace il quale sostiene che il pubblico premierà coloro i quali assumeranno un linguaggio volto alla reciprocità, alla responsabilità, al rispetto e alla riconoscibilità:
Nascerà una riconoscenza spontanea per chi, durante la crisi, si sia mosso a favore della comunità. […] le persone si affideranno a quei marchi che saranno capaci di sostenere ogni aspetto del proprio lavoro con la massima serietà. Dalla gestione delle risorse umane, alla sostenibilità degli approvvigionamenti. […] Dovranno dimostrare di avere lo stesso livello di abnegazione di chi, come medici o cassieri, ci hanno sostenuto nei mesi più neri.
Moltissimi i brand che, fin da subito, hanno risposto presente, comunicando donazioni, riconversione industriale verso la produzione di presidi medici e aiuti concreti nei confronti del proprio Paese.
Oltre al processo di valorizzazione tematica, molti protagonisti del fashion hanno identificato in questa crisi un’ottima opportunità per ritornare a una produzione più consapevole, meno concorrenziale e volta a realizzare e recuperare quell’umanità perduta di cui parla Hägglund.
Oltre il già citato Armani, anche Brunello Cucinelli, Elisabetta Franchi, Alessandro Dell’Acqua (N°21) e Pierpaolo Piccioli (Valentino) sono solo alcune delle voci autorevoli che si sono espresse a favore di un ritorno a una moda più riqualificata dal punto di vista del benessere, prima del profitto.
Ora c’è solo da sperare che queste voci, così forti e così progressiste siano veramente divinatorie di un processo virtuoso volto a recuperare il valore della moda e di chi lavora in questo settore meraviglioso.
Cosa succederà, dunque? È possibile prevedere come verremo fuori da questa tempesta? Forse no. Sappiamo, però, che il mondo e, con esso, il sistema moda non saranno più gli stessi e che, in mezzo a questo dolore, sta prendendo forma un nuovo panorama, fatto di nuove vicinanze, di nuove consapevolezze e, forse, di nuovi e rinnovati valori.
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