Culture is not costume

Moda e appropriazione culturale
in copertina: Hassan Hajjaj, da sx a dx: Marc Hare (2013), Nana (2009), Caravane (2011), Joe Casely Hayford (2012), N.vs. A. (2007)
“Gli europei hanno perso la facoltà di creare miti e dogmi, e, per soddisfare questo bisogno umano, devono ricorrere al retaggio del passato. La mente dell’africano, invece, si muove con facilità e naturalezza per quei sentieri profondi e oscuri”.
Karen Blixen
A noi occidentali sembra davvero strano che, in un mondo in cui mode, stili e sistemi di gusto si diffondono a tempo di click, esistano ancora realtà in cui il tempo si sia fermato e in cui la vita procede con ritmi quasi astratti. Forse è questo il vero motivo per il quale siamo così attratti dalla cultura e dallo stile di vita africano. Le maschere tribali, i monili rituali, i tessuti e le fantasie utilizzati per la realizzazione di capi e suppellettili hanno, da sempre, ispirato moltissimi artisti, autori e designer nel corso della storia. La moda, più di altre arti, si è lasciata influenzare da questo mondo inconoscibile, selvaggio e affascinante ed ha spesso declinato, con la creatività distaccata dell’occidentale, simboli e stili propri dei paesi africani a un gusto puramente “bianco”.
Pablo Picasso, Le demoiselle d’Avignon, 1907, MoMA, New York Amedeo Modigliani, Tete de Caryatide, 1909, collezione privata
La prima volta che il mondo africano ha sfiorato la moda occidentale lo ha fatto con Christian Dior il quale, nel 1947, inserisce un’idea embrionale di Africa all’interno della propria collezione, disegnando un abito da giorno maculato, chiamato “Jungle” e un abito da sera caratterizzato da una morbida gonna in chiffon, l’”Afrique”.
Christian Dior, Jungle Dress, spring/summer 1947 Christian Dior, L’Afrique Dress, spring/summer 1947
È tuttavia il 1967, l’anno in cui l’Africa calca per la prima volta le passerelle, quando Yves Saint Laurent dedica l’intera collezione primavera-estate al mondo tribale africano: è la celebre collezione Bambara. Si tratta di minidress con motivi geometrici arricchiti da elementi in legno e accompagnati da importanti cappe in rafia e monili in ebano.
Lo stesso anno anche un giovanissimo Valentino disegna una collezione ispirata al mondo esotico, reinterpretando abiti e accessori africani in uno stile chic e bon ton. Poi è stato il turno di Gianfranco Ferré, il quale nel 1993 porterà la sua primavera/estate nel mondo dei guerrieri africani, mentre nel ’97, John Galliano fa conoscere a Dior la cultura Masai. Lo stesso anno il belga Dries Van Noten adatta la stampa wax a un tessuto morbido, esperimento che ripeterà nel 2010. In tempi recenti sono sicuramente importanti gli esempi di Junya Watanabe che, nel 2009 accosta stampe africane all’occidentalissimo denim, unendoli a un gusto squisitamente giapponese. Miuccia Prada, nel 2011, decora i suoi vestiti con banane e scimmie, accostando per la prima volta la maison Prada a un’idea di Africa molto personale. Sempre nello stesso anno Marchesa decora i suoi elegantissimi abiti con elementi tipici della cultura tribale: le geometrie, l’utilizzo massiccio del color oro e di accessori come turbanti e monili, rendono questa collezione un nuovo esperimento per il brand haute-couture italiano. Interessanti approcci al tema negli ultimi anni, sono sicuramente quelli che vedono protagonisti Valentino il quale, nel 2016 torna a parlare di “Africa tribale e selvaggia” (questo il nome della collezione), raccontandoci, attraverso segni e disegni tribali, la sua idea di esotismo africano; Stella Jean, stilista che ha impostato la sua poetica creativa proprio sul metissàge culturale o, ancora, Christian Dior, che grazie alla dialettica inclusiva e social-conscious messa in atto dalla direttrice creativa Maria Grazia Chiuri, è riuscita a creare una cruise collection 2020, intesa come celebrazione dell’estetica nordafricana.
Valentino, Spring-Summer 1967 Gianfranco Ferré, Spring-Summer 1993 Christian Dior by John Galliano, spring-summer 1997 Dries Van Noten Spring/Summer 1997 (Photo by Victor VIRGILE/Gamma-Rapho via Getty Images) Dries Van Noten, Spring/Summer 2010 Junya Watanabe, Spring/Summer 2010 Marchesa, resort 2011 Prada, Spring/Summer 2011 Valentino, Spring/Summer 2016 Stella Jean Christian Dior, cruise 2020
Proprio questi ultimi due esempi hanno messo in luce un approccio nuovo nei confronti del reciproco scambio tra creatività occidentale e mondo tribale. Se fino a poco tempo fa il rapporto era quasi esclusivamente d’ispirazione, nell’ultimo periodo il concetto di social responsability ha cambiato leggermente le carte in tavola.
Stella Jean, stilista italo-haitiana famosa per le sue collezioni Wax & Stripes, nel 2013 è stata promotrice di una linea realizzata interamente in collaborazione con artigiane burkinabé: i tessuti intrecciati realizzati a mano hanno, per la prima volta, calcato le passerelle della settimana della moda di Milano e la tradizione tessile centenaria del Burkina Faso è finalmente stata elevata a livello di lusso, valorizzando al massimo il lavoro estremamente sapiente delle donne coinvolte. Il lavoro di Stella Jean, dunque, non si ferma solo alla moda ma arriva a toccare la diplomazia in tutti i suoi aspetti. In questo processo è riuscita a essere ambasciatrice e testimonianza vivente di come la moda, oltre l’estetica, possa trasformarsi in un veicolo di espressione culturale per una crescita e un affrancamento al contempo economico, sociale ed etico.
MILAN, ITALY – SEPTEMBER 21: Stella Jean Spring Spring Summer 2014
(Photo by Catwalking/Getty Images)MILAN, ITALY – SEPTEMBER 21: Stella Jean Spring Spring Summer 2014 (Photo by Catwalking/Getty Images)
Altro esempio è la già citata cruise collection 2020 Christian Dior. La Chiuri ha reso omaggio alla cultura africana non solo attraverso una conversazione estetica, ma in maniera quanto mai pratica. I tessuti utilizzati per questa collezione, sono stati realizzati in collaborazione con Uniwax, il maggior produttore al mondo di stampa wax, con sede in Costa d’Avorio. Per la prima volta in assoluto, oltretutto, è stato chiesto a designer locali uno sforzo creativo di reinterpretazione delle icone della maison, creando un inedito scambio: così lo stilista ivoriano Pathé’O e la designer britannica Grace Wales Bonner hanno proposto una nuovissima idea di New Look trasformandolo in maniera del tutto originale.
Christian Dior, cruise 2020, Chiuri and Pathe’O (Photo credit should read -/AFP via Getty Images) Christian Dior, cruise 2020, Uniwax (Photo credit should read -/AFP via Getty Images) Christian Dior, cruise 2020, Chiuri and Wales Bonner (Photo credit should read -/AFP via Getty Images)
Questo ossimorico matrimonio tra due mondi, tuttavia, non ha sempre incontrato il favore dell’opinione pubblica. Moltissimi blogger e opinionisti africani, infatti, deplorano il continuo e improprio utilizzo da parte della moda occidentale di elementi tipici della tradizione tessile e stilistica africana. Analizzando alcune tra le voci più significative di questo manifesto dissenso, emerge quella di Nneka M. Okona, blogger nigeriana creatrice del sito www.afrosypaella.com. All’interno di un durissimo intervento, critica pesantemente le collezioni «con un influsso comunemente definito come “tribale” o “etnico”» di brand fast fashion come Zara, Asos, Forever 21 e H&M. Il punto critico dell’invettiva, consisteva nel fatto che le collezioni fossero presentate in campagne pubblicitarie che ritraevano quasi esclusivamente modelle bianche, vestite con abiti e accessori cerimoniali nigeriani. La questione per la Okona è che, dal punto di vista di un’africana, vedere una donna bianca (o afro-americana) indossare un copricapo nuziale, piuttosto che gioielli rituali, per un outfit serale è davvero ridicolo. «È una nozione immatura che un’intera cultura sia abbassata a semplice moda e abbandonata e dimenticata un minuto dopo. Non si parla più di appropriazione culturale, bensì di vero e proprio feticismo».
Un’altra giornalista africana, Zipporah Gene, in un articolo pubblicato su thsppl.com, mette in luce il fatto che vestirsi con abiti tradizionali africani sia spesso molto rischioso: sono abiti che hanno un valore ben preciso all’interno della cultura del Paese d’origine, poiché vengono indossati ai funerali, ai matrimoni o alla nascita di un figlio. La Gene sostiene che ridurre elementi così carichi di significato a semplici capi trendy diluendoli con il gusto occidentale, sia qualcosa che urli ignoranza e insensatezza. Non basta questo per definirsi in qualche modo “afrocentrici”.
Non tutti gli africani, tuttavia, percepiscono così tanto il peso di questo “colonialismo valoriale” che sottrae alla tradizione nera i propri simboli riducendoli a semplice trend. Esistono, infatti, alcuni gruppi sociali che fanno di questo mix culturale il proprio elemento distintivo: in Congo, ad esempio, è molto diffuso il movimento dei sapeur, ovvero i nuovi dandy. Girando per le strade di Brazzaville, la capitale del Congo, e per Kinshasa, la capitale della Repubblica Democratica del Congo, è molto facile imbattersi in questi uomini vestiti in maniera estremamente eccentrica e vistosa. Il movimento ha avuto origine durante il colonialismo, quando le popolazioni autoctone furono affascinate dallo stile e dall’eleganza dei francesi. Ispirati alla loro estetica, in molti cominciano a imitare quello stile, interpretandolo secondo il loro mondo e i loro gusti. Ogni sapeur indossa abiti eleganti, estrosi occhiali da sole, cappelli di feltro e scarpe luccicanti, tutto rigorosamente firmato e adornato con preziosissimi accessori, come il bastone da passeggio, cravatte, papillon sfavillanti e pipa di scena. Uno degli elementi più interessanti è il fatto che loro stessi acquistino capi decorati con la stampa wax o kitenge, spesso accompagnandoli con accessori simili al kanga swahili o il kente ghanese. Questo movimento convive perfettamente con la situazione di estrema povertà dei due stati africani, nei quali i sapeur sono considerati dei veri e propri divi del lusso. Questo movimento, inoltre, ha avuto origine in un’area, quella congolese, in cui sono tutt’ora presenti tribù, come quella dei Kuba, in cui il modo di vestire non ha subito alcun genere di influenza nell’epoca del colonialismo.
Sapeur, via Pinterest Kuba, traditional Congolese costume A member of La Sape,
via Pinterest
La situazione, dunque, è sicuramente molto varia e complicata e sembra che non esista davvero una posizione comune: un dato sicuramente interessante, tuttavia, riguarda numerosi movimenti socio-culturali che puntano alla riqualificazione dell’immagine degli stati africani promuovendoli in tutto il mondo attraverso progetti bubble-up che hanno l’obiettivo di mostrare quanto questo continente sia diverso rispetto allo stereotipo comunemente percepito in Occidente. Rebranding Africa Forum è uno dei maggiori promotori di questa nuova cultura: lo scopo è quello di esortare gli africani a promuovere il proprio continente per cambiarne la percezione negativa. Si punta a rilanciare l’immagine dell’Africa a 360 gradi: da questa spinta nasce un nuovo orgoglio da parte degli abitanti dei Paesi africani a voler mettere in mostra origini e cultura, al fine di rendere il proprio luogo di provenienza, noto e apprezzato. Se fino a poco tempo fa il massimo era ambire all’occidentalizzazione in tutto (pelle, capelli, vestiti…) ora si assiste a un movimento contrario, che deriva dalla curiosità di un pianeta che è sempre più piccolo, un “villaggio globale” nel quale culture, mode e sistemi di gusto si diffondono rapidamente; e questa diffusione non è più unilaterale, da Occidente al resto del mondo, ma si fonda su un gioco di culture e di reciproche influenze al quale non abbiamo mai assistito prima. È una sorta di risposta pacifica al colonialismo: attraverso la moda e l’uso di stoffe e stampe tipiche del continente africano, queste riacquistano valore e fascino e forse, per la prima volta, entrano di diritto nel mondo della moda che ha sempre escluso l’Africa. È una nuova espansione, determinata dallo sviluppo di un’identità più forte, che non deve nascondersi o occidentalizzarsi per essere considerata accettabile.
In conclusione, è importante dire che non c’è strumentalizzazione in questo sistema. Non è ignoranza mixare gli stili ed è comune non conoscere la storia dei capi che si indossano: l’inclusione implica curiosità e apprezzamento.