La storia di Issey Miyake, il Sarto del Vento

Sono in questo studio medico da 10 minuti, un cartello invita a non usare lo smartphone. Di fianco a me riviste di tutti i generi. Sfoglio distrattamente; è un magazine piuttosto datato che tratta di interior design. L’attesa si prolunga ma un nome colpisce improvvisamente il mio interesse: Issey Miyake. Adoro questo stilista, sapevo che aveva aperto uno store a Milano in Via Bagutta ma non ho ancora avuto l’occasione di visitarlo.
Gli abiti dai toni vivaci e dalle textures grafiche fanno da contrasto ai muri bianchi. Grafismi ripresi poi anche nelle forme degli arredi: i pouf Brook di Moroso, disegnati da Tokujin, geometrici e sfaccettati, ma nel contempo morbidi, dialogano coi tavoli di Desalto e si inseriscono con armonia tra i pavimenti d’epoca e i soffitti affrescati che conservano ancora intatto il fascino del XIX secolo. Una sfida accettata da Issey Miyake – attratto di solito dalle architetture contemporanee – e vinta grazie alla creatività di Tokujin, che riesce a inserire nell’eredità classica il minimalismo di cui è maestro.
abitare.it

Conoscendo lo stile di Miyake, riesco ad immaginare i suoi abiti come opere d’arte contemporanea esposte nella sfarzosità di un palazzo dell’Ottocento italiano. Sicuramente è riuscito, anche in questo caso, a unire meravigliosamente mondi distanti creando un luogo unico.
Chi conosce Issey Miyake sa che non è solamente uno stilista, fare moda è stata solo una delle forme per esprimere il suo immenso talento. E’ un artista, un designer, un ricercatore instancabile, un innovatore appassionato. È il “Sarto del Vento”, come a Parigi fu definito.
L’infanzia e la bomba atomica

La sua storia ha un inizio difficile perché il punto di partenza è orrore puro. Se nasci a Hiroshima nel 1938 e a 7 anni la tua città viene spazzata via da una bomba atomica, sarai testimone vivente di uno dei capitoli più bui della storia dell’uomo, per sempre.
Issey Miyake, al secolo Miyake Kazumaru, ha parlato per la prima volta di questa sua esperienza solo nel 2009 per sostenere l’impegno di Barak Obama verso il disarmo nucleare globale, rendendosi conto di avere la responsabilità morale e personale di parlarne come un sopravvissuto.
“Quando chiudo gli occhi, vedo ancora cose che nessuno dovrebbe mai sperimentare: una luce rossa brillante, la nuvola nera subito dopo, persone che corrono in ogni direzione cercando disperatamente di scappare – ricordo tutto”
International Herald Tribune
Non ho mai voluto parlare della bomba. Pensavo fosse patetico usarla come una scusa. Tuttavia ho pensato che forse il mondo sarebbe potuto cambiare un po’ se qualcuno come me, che porta con sé ancora i sintomi delle radiazioni raccontasse la propria storia. Frequentavo la prima elementare quando la bomba fu sganciata 70 anni fa su Hiroshima il 6 agosto. Sentii un boato improvviso e un pezzo di vetro della finestra mi si conficcò in testa. Ero molto spaventato. All’epoca vivevo nella città di Fuchu, adiacente a Hiroshima. La mia casa, dove stava mia madre, era a soli 2 km e mezzo dall’epicentro dell’esplosione. Dissi alle persone che avevano aiutato me e gli altri bambini ad evacuare «voglio tornare a casa» e loro mi diedero dei biscotti molto duri e secchi. Mi avviai a casa da solo, per cercare mia madre. C’erano persone bruciate ovunque. Ammassate una sopra l’altra. Trovai mia madre il giorno seguente, viva, ma con metà corpo gravemente ustionato. Appena lei mi vide mi disse «sei il mio figlio più grande, vai i campagna, lì sarai al sicuro». Mia madre era una donna forte e tenace. Tutti, i vicini e i parenti, le volevano molto bene. Sviluppai una periostite a causa dell’esposizione alle radiazioni che emerse quando frequentavo la quarta elementare. Molti morirono per questa malattia, ma io fui salvato dalla penicillina. Mia madre mi curò con tutti i mezzi di cui disponeva mentre combattevo contro la malattia, e morì poco dopo che le mie condizioni migliorarono. Ho cominciato a disegnare in prima elementare e il mio insegnante, Susumu Hasegawa, mi insegnò a dipingere in quinta. Non potevo permettermi i pennelli, quindi cominciai con le mie dita. Hasegawa mi aiutò tantissimo e mi supportò anche dopo che diventai designer.
Metropolis Mag

Come affermerà in seguito, in un’intervista al New York Times, quel giorno tragico condizionerà le sue scelte future portandolo a cercare qualcosa che può essere creato e non distrutto, qualcosa che produca gioia e bellezza.
E’ partito dall’orrore e dalla morte ma per tutta la sua carriera, è stato ambasciatore di bellezza e vita.
Poco si conosce di Miyake durante il periodo post bellico, ma sicuramente lo stile di vita, personaggi e TV occidentali portati in Giappone durante l’occupazione americana, condizioneranno profondamente la sua infanzia e adolescenza. Questa straordinaria influenza, unita a un sempre crescente sentimento filo-occidentale del popolo giapponese di quel tempo, lo portano ad ampliare il proprio spettro creativo.
Il giovane Miyake inizia così a interessarsi di design, nella sua forma più pura. Di design, non di moda…..non ancora.
Tokyo e Parigi – la formazione e i primi lavori

Così a 19 anni, nel 1959, inizia a frequentare la Tama Art University di Tokio. Non pensava, a quel tempo che la moda potesse essere un lavoro, era giapponese e gli abiti erano cosa europea.
La curiosità che lo ha sempre contraddistinto, però, lo porta a studiare e a sperimentare forme di disegno e di creatività sempre più nuove e sempre differenti.
L’aver studiato design genera in lui il desiderio di un punto di vista nuovo, lontano dall’immobilismo e dall’univocità del pensiero creativo giapponese. Decide, così, di partire per Parigi tre mesi dopo la partenza per la Francia di un altro grandissimo stilista giapponese, Kenzo Takada. Miyake e Kenzo si erano conosciuti a Tokio e insieme a Parigi frequentano l’Yves Saint Laurent, Pierre Cardin, Paco Rabanne e Cristobal Balenciaga.
. La capitale francese, all’epoca, era la culla della creatività mondiale e vero e proprio tempio di artisti del design, come
Miyake, in questa cornice di strapotere creativo completa la sua formazione di designer, incanalando le sue conoscenze nel mondo del fashion.
Di fatto la sua carriera inizia nel 1966 come apprendista di due grandi couturier francesi, Guy Laroche prima e Hubert Givenchy, poi.
Affascinato dall’haute couture, ma desideroso di approfondire nuove modalità espressive, Miyake comincia presto a cercare nuove opportunità che possano andare oltre le rigide regole dell’ancient-regime parigino. L’occasione si presenta nel 1969, quando gli viene offerta la possibilità di lavorare come designer da Geoffrey Beene, a New York.
New York – le prime creazioni

L’arrivò nella Grande Mela rende chiaro, fin da subito, come la creatività americana si distanziasse enormemente da quella parigina. New York era la città dei grandi magazzini, del ready-to-wear, dell’industria, del
. L’approccio alla moda era lontano anni luce dell’aura di intelligibilità parigina.In questo contesto, Miyake passa il suo tempo libero a disegnare e quindi a realizzare alcuni campioni di abbigliamento, principalmente t-shirt e abiti con disegni Tebori, eseguiti con una tecnica giapponese simile al tatuaggio e vestiti decorati con il metodo Sashiko, una sorta di ricamo che conferisce forza e pesantezza ai tessuti.
Ricamo Sashiko, via Pinterest Sashiko Dresses – Issey Miyake, 1971
Issey Miyake Tattoo collection, 1971 Issey Miyake Tattoo Collection
via anothermag.com
Un entusiasta amico newyorkese, decide di portare alcuni campioni di design di Miyake alla rivista Vogue e al Grande Magazzino Bloomigdale’s. Sia Vogue che Bloomigdale’s ne furono enormemente colpiti, al punto che lo store dedica al suo lavoro una piccola sezione chiamata “Oriente incontra Occidente“.
Il ritorno a Tokyo, il Miyake Design Studio e le prime collezioni
Il riconoscimento del settore, sia dal punto di vista sales che print, era figlio di una crescente attenzione nei confronti del mondo asiatico che, proprio a cavallo tra gli anni Sessanta e Settanta, esplode nelle figure di Kenzo Takada, Rei Kawakubo e Yohji Yamamoto.
Kenzo Takada Rei Kawakubo Yohji Yamamoto
Tale tendenza raggiunge il suo apice nel 1970, anno dell’Esposizione Universale di Osaka: gli occidentali iniziano ad osservare e ad interessarsi a questo Paese orientale che si era sviluppato rapidamente dopo il periodo bellico. In questa cornice il nostro protagonista percepisce l’enorme potenziale di sviluppo del Fashion Design in Giappone e, per questo motivo, proprio in quell’anno, torna a Tokyo e fonda il Miyake Design Studio, iniziando ad amalgamare il design occidentale con tecniche di fabbricazione orientali.

Lo stesso anno, la sua prima collezione è presentata anche a Tokyo con ben poco successo. I giapponesi deridono gli abiti di Miyake definendoli “tasche per patate”. I materiali erano simili alla garza usata per l’abbigliamento da lavoro e a quel tempo i giapponesi erano convinti della modernità dell’abbigliamento occidentale e non amavano riconoscere negli abiti, elementi nazionali.

Il successo, il plissé e la definizione dello “Stile Miyake”
Nel 1973, quando il
francese era ormai istituzionalizzato, per la prima volta viene invitato a Parigi per partecipare a una mostra collettiva con altri giovani designer. I suoi abiti erano opere uniche e causarono enorme scalpore nell’industria della moda occidentale risultando totalmente sganciati da tendenze, stagioni, tessuti ma, soprattutto, dal genere. Miyake, infatti produceva abiti totalmente scevri da qualsiasi logica riconoscibilità di sesso, ergendo sé stessi come i primi veri esperimenti di moda agender, quasi quarant’anni prima dell’effettiva esplosione del fenomeno.Croce e delizia degli albori della sua carriera, la riconoscibilità del marchio giapponese era proprio questa: la rottura delle logiche di mercato in favore della creazione di “oggetti da indossare”, di
, difficili da tradurre nella vita quotidiana ma dall’alto livello artistico e creativo. Collezione dopo collezione, tuttavia, il crescente interesse da parte del grande pubblico costringe Miyake ad abbandonare progressivamente questa filosofia per avvicinarsi a un modello creativo più vicino a una commerciabilità, fino ad arrivare, nel 1978, ad aprire la linea Issey Miyake Men, distinguendo per la prima volta l’offerta.
Negli anni 80 Issey Miyake costruisce il suo successo continuando tenacemente ad esplorare prodotti e tessuti innovativi da convertire e usare nell’abbigliamento: plastica, carta di riso e filo metallico, tra gli altri.
Issey Miyake, 1980, plastic body, via IED Master Magazine Issey Miyake Pleats Please, vestito con filo metallico, via Pinterest Flying Saucer Gown, Issey Miyake 1994, rice paper, via Pinterest
Esattamente in quel periodo, lo stilista comincia a studiare una delle tecniche decorative più significative e riconoscibili di tutta la sua carriera, il plissé. In passato, tessuti pieghettati erano stati ampiamente usati per creare modelli particolari ma Issey Miyake praticamente regala una forma al tessuto imprimendo indelebilmente le pieghe con una pressa a caldo. Il risultato è un capo leggerissimo che può essere lavato in lavatrice, non stirato e messo in valigia senza problemi. PLEATS PLEASE, una linea interamente dedicata al al tessuto plissé nasce nel ‘93 e diventerà la sua label più celebrata.

Issey Miyake Primavera-Estate 2016, via Ulla Models Issey Miyake pre-fall 2018, via Pinterest Issey Miyake, Resort 2016, via Vogue
La ricerca lo appassiona, il suo desiderio è allargare lo sguardo su altri mondi: arte, design d’interni, nuovi tessuti, nuove forme. Per questo motivo nel 1994 lascia la moda, affidando a Naoki Takizawa, il suo assistente, il ruolo di responsabile della collezione uomo e, nel 1999 estende il mandato anche alla donna, sancendo la propria uscita definitiva dalla direzione creativa del brand, mantenendo comunque il ruolo di Presidente.
Naoki Takizawa (1999-2007)
Rispetto per la tradizione e Romanticismo High-Tech

Da Issey ho imparato il significato di “design”. Mi ha dato la possibilità di vivere tantissime esperienze; andare in India, per esempio, a scegliere I tessuti locali per i vestiti, o a Milano, dove ho avuto la possibilità di imparare tutto del menswear. infine mi ha mandato a Parigi, dove ho conosciuto la bellezza, la fantasia e l’arte
Naoki Takizawa
Entra in Miyake appena laureato, nel 1981 e, per più di vent’anni, sarà il braccio destro di Issey. Per questa ragione, risulterà essere la scelta più ovvia e immediata per la successione nella direzione creativa dello stilista. Ricerca dei materiali, silhouette poetiche, pennellate leggere di colore-non-colore. Prosegue la ricerca materica del suo Maestro, sublimandola in un approccio inedito alla tecnologia, come mai era stato possibile fino a quel momento.
È sotto la sua direzione, infatti, che nasce A-POC, acronimo di “A Piece Of Cloth”.
A-POC

A-POC, nato sotto l’egida di Tazikawa, ma sviluppato dalla mente creativa di una giovanissima new entry nel team art del brand, Dai Fujiwara, è fondamentalmente un’idea che permette di creare un outfit su misura partendo da un unico pezzo di stoffa.
Una macchina per tessere programmata da un computer produce un enorme tubolare continuo di stoffa. Sul tessuto vengono impresse sagome e un puzzle di forme suggerisce la presenza di abiti, camicie, calzini, guanti e cappelli. Il cliente taglierà le sagome di abbigliamento per ricavare dal “pezzo di stoffa” gli abiti che desidera e, sempre usando le forbici, deciderà la lunghezza delle maniche o la larghezza dello scollo. Il tubolare di stoffa può contenere un’intero guardaroba.
La forma finale di un vestito è determinata dal modo in cui si muove il corpo. Al contrario dell’architettura e dell’arredamento, il disegno di un capo di abbigliamento non può essere portato a termine senza la partecipazione di chi lo indosserà. Ho cercato di sperimentare per apportare cambiamenti fondamentali al sistema di creazione degli abiti. Un filo entra in una macchina che a sua volta genera abbigliamento completo utilizzando le più recenti tecnologie informatiche ed elimina la neccessità di tagliare e cucire il tessuto.
Issey Miyake
A-POC fu presentato nel 1999 a Parigi in occasione della sfilata primavera/estate. Fu una sfilata epocale. Decine di modelle indossavano contemporaneamente un lunghissimo ininterrotto pezzo di tessuto.

Issey Miyake, intervistato per The Weekend Australian subito dopo lo show, spiegò che «A-POC va oltre le idee delle persone sull’abbigliamento, oltre la couture, oltre il concetto tradizionale di abbigliamento e il processo di creazione dell’abbigliamento. Stiamo cercando di trovare un nuovo tipo di vestito. Questo è il nostro progetto per il prossimo secolo».
La classica maglia nera a collo alto che Steve Jobs ha indossato da 1998 al 2011, anno della sua morte, era una realizzazione A-POC di Issey Miyake. Jobs rimasto affascinato dall’alta tecnologia del sistema, chiese a Miyake di produrre per lui il classico dolcevita nero, che indossava ogni giorno. Miyake con il metodo A-Poc gliene fornì 100 pezzi provenienti tutti da un unico tubolare di maglia.
Il sistema A-POC fa parte della collezione permanente del MoMa di New York.
Steve Jobs via macitynet.com A-Poc, al MoMa
Dai Fujiwara (2006-2011)
Moda, design, origami e matematica

Nel 2006, all’apice del successo di A-POC e all’apice dell’espansione commerciale del marchio, Naoki Tazikawa lascia Issey Miyake per aprire il proprio label, tuttora attivo, e per seguire la direzione creativa dei marchi Helmut Lang prima, e Uniqlo poi.
La scelta per il suo successore, come da tradizione, ricade su un interno. Un personaggio che lavorava nel Miyake Studio dal 1995. Il deus-ex-machina e direttore di A-POC, Dai Fujiwara.
Sotto la sua guida, il brand prosegue la sua espansione, internalizzando A-POC, che diventa parte del main brand, e creando il label BAO BAO, sottomarchio di borse e accessori che traggono ispirazione dalla Bao Bao Bag, la borsa composta da strutture triangolari, lanciata con Pleats Please nel 2000.

132.5
È di Fujiwara, inoltre, la creazione di 132.5, un concept estremamente innovativo che ha la pretesa di portare l’abito oltre il concetto di tridimensionalità. Un esempio di moda a parte, di moda del futuro. Un incrocio totalmente inedito tra design e fisica. Il nome così enigmatico, nasconde in realtà un significato molto specifico, dove 1 si riferisce all’utilizzo di un pezzo unico di tessuto, 3 alla forma tridimensionale, 2 al fatto che il tessuto sia piegato in un forma bidimensionale e 5 come forma di augurio al fatto che il concept conduca alla scoperta di nuove dimensioni.

Il progetto nasce dall’incontro tra lo stilista e il ricercatore informatico e modellista 3D Jun Mitani: attraverso un software viene studiato un oggetto bidimensionale costruito con una tecnica simile agli origami il quale, una volta sviluppato in una forma verticale, diventa un abito a tutti gli effetti. Mantenendo la tradizione di avanguardia in termini di ricerca dei materiali, anche per il 132.5 viene scelto un tessuto totalmente innovativo, oltre che environment-friendly: il PET, polietilene tereftalato, materiale ottenuto dal riciclo di bottiglie di plastica. Riguardo a 132.5, Miyake stesso si pronuncerà affermando: «le mie parole chiave per 132.5 sono rigenerazione e nuova creazione».

Yoshiyuki Miyamae (2011-2019)
3D e persone

È difficile creare qualcosa partendo da uno schizzo. Trovo, però possibile, creare partendo dall’innovazione. Un’innovazione che colleghi due punti diversi, come tecnologia e persone, come tradizione e tecnologia. Percepisco che il ruolo di designer consista in collegare tutte le cose, guardando a fondo all’epoca in cui viviamo.
Yoshiyuki Miymae
Nell’ottica di un mantenimento costante della visione originale del Maestro, anche la successione di Fujiwara viene affidata a un interno.
È il 2011 quando Yoshiyuki Miyamae, in Miyake dal 2001, viene nominato art director.
È lui l’inventore di 3D Steam Stretch, una particolare tecnica che unisce l’esperienza del plissé con quella di A-POC, per studiare nuove forme di multidimensionalità dell’abito. Si tratta di un pezzo unico di tessuto nel quale vengono incorporate delle pieghe, prima della composizione dell’abito. Attraverso l’esposizione al calore, nella fase di costruzione, il capo finito seguirà le forme delle pieghe impresse in fase preliminare, regalando all’abito numerosissime superfici diverse. Un concetto innovativo, che va oltre la tridimensionalità.

Satoshi Kondo (2019-)

Dal 2019 il direttore artistico della collezione donna è il giovane stilista Satoshi Kondo nato a Kyoto nel 1984, prima di approdare all’incarico, ha lavorato in Azienda per 13 anni, prima per Pleats Please, poi per Homme Plissé. Firma la sua prima collezione come Direttore Creativo in occasione della Primavera-Estate 2020; lo show si chiama “un senso di gioia” ed è una rivisitazione fresca, giovane e gioiosa del linguaggio della Maison Miyake

Parlando di Issey Miyake è molto più semplice definire ciò che non è.
Fin dagli esordi, non è interessato allo status, all’apparire, non mette l’abito al centro ma il corpo che lo indosserà, la comodità, la leggerezza, la praticità. L’abbigliamento di Issey Miyake non è Moda, è Design. Non segue i cambiamenti dei tempi, è un designer che crea e disegna producendo relazioni innovative tra abito e corpo.
Gli abiti sono caratterizzati da tagli minimal e da sorprendenti tessuti tridimensionali che creano sul corpo volumi unici. Parecchi prodotti hanno un’unica taglia, le misure e la vestibilità variano seguendo il corpo che li indossa.
Il comfort è assoluto come la praticità della manutenzione e la singolarità dei materiali.
Le sue sfilate, fin dagli anni 90 sono movimento e leggerezza questo perché un corpo in movimento esalta la dinamicità dell’abito. Gli uomini e le donne in passerella sono persone che dimostrano la comodità di ciò che indossano. Spesso non sono modelle/i ma atleti, ballerine che si muovono, danzano e giocano. La presentazione di una collezione Issey Miyake è sempre uno spettacolo.
«I miei vestiti diventano parte di qualcuno, parte di loro fisicamente» ha detto una volta Miyake. «Forse creo strumenti. Le persone comprano i miei abiti e questi diventano strumenti per la creatività di chi li indossa».
