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C’era una volta a Milano – 2000s Throwback
C’era una volta… una Milano un po’ diversa. Chiaro. In termini di tendenze il capoluogo lombardo non è mai stato secondo a nessuno. Ma c’è stato un periodo in cui di trend ce n’erano davvero tanti e i ragazzi che ne seguivano uno, piuttosto che un altro, avevano determinati codici da rispettare, avvicinandosi quasi a un’idea di appartenenza tribale. C’erano norme di comportamento da seguire, generi musicali da ascoltare, luoghi da frequentare e, soprattutto, un dress code molto rigido da rispettare. No. Non stiamo parlando degli anni Settanta, epoca caratterizzata da grandi ideologie che si riflettevano sull’abbigliamento di allora.
Il periodo in questione sono gli anni Duemila, un decennio poco considerato in termini di moda, ma ricordato con affetto da tutti i ragazzi che in quel periodo sono cresciuti. Ragazzi che oggi, quasi giunti alla soglia dei trent’anni, guardano i giovani trapper di quartiere con quel misto di borioso sussiego e celata nostalgia tipico di coloro i quali capiscono che ormai sono usciti dal macrocosmo dei “giovani d’oggi” consegnando il loro territorio al nuovo che avanza. Ragazzi che hanno evoluto le loro licenze vestimentarie verso espressioni di sé più sobrie, più al passo con l’identità internazionale che Milano in questi anni ha assunto, andando forse un po’ ad appiattire quella grande varietà di colori e forme che popolavano le strade di allora.
E noi, ragazzi dei Novanta che siamo diventati grandi nei Duemila, siamo stati letteralmente risucchiati da quel vortice di colore, di gel e di eyeliner che ha reso unico quel periodo. E tendiamo a dimenticarci di come ci vestivamo, o vogliamo dimenticarcene, eliminando tutte le foto presenti su qualsiasi piattaforma di condivisione e ammassando il tutto in qualche cartella remota di un vecchio hard disk.
Quello che si tende a dimenticare, tuttavia, è che quello fu un periodo particolare per una ragione; mai prima di allora ci fu un affrancamento così diffuso del concetto di fluidità di genere. È stato sicuramente un momento cruciale nel processo di consapevolezza da parte della nostra generazione del concetto di uguaglianza sociale. Sì perché questi trend tendevano ad appiattire pesantemente le differenze di genere tra i giovanissimi maschi e femmine del periodo. Stiamo parlando degli emo kids, del PGold e dei gabber.
Ma procediamo con ordine.
EMO KIDS


Era forse il 2007 quando questa sottocultura è entrata a far parte del sostrato giovanile milanese. Vista con gli occhi di un quattordicenne appena uscito dall’apparente innocenza delle scuole medie, questi soggetti a metà tra skater e punk e tutti truccati mi trasmettevano un senso di forte ambiguità. Tutto mi fu più chiaro appena cominciato il liceo. Un ragazzo, Giò, seduto in ultima fila corrispondeva ai canoni estetici di quel nuovo movimento di cui tutti parlavano. Vestito di nero, jeans skinny, felpa oversize, scarpe da skater, cappellino New Era dal quale spuntava un ciuffo biondo asimmetrico. Con il passare del tempo io e Giò diventammo amici e scoprì molto più su di lui. Per prima cosa gli piacevano le ragazze, facendo saltare la mia prima certezza sul mondo emo (Suvvia! Se ti piastri i capelli e ti copri il viso con matita e eyeliner non è possibile che ti piacciano le ragazze!), e in secondo luogo aveva uno smodato amore per la musica.
Scoprii, in seguito, che era proprio la musica il cuore pulsante di questo trend, sin dalle origini. Gli emo nascono, infatti, tra la fine degli anni Ottanta e l’inizio dei Novanta, a Washington DC, con l’emergere del genere emotional-hardcore, un’evoluzione della musica punk, declinata a branca dell’hardcore. Negli anni, la musica emo cambia avvicinandosi a sonorità più soft, come il punk-rock o il pop-rock. La tendenza raggiunge il suo culmine alla fine degli anni Duemila, diffusa soprattutto grazie ai primi social network come MySpace, Duepuntozero e Netlog.
A Milano non era solo Giò a far parte di questa comunità. Tantissimi ragazzi e ragazze si accalcavano, ogni sabato pomeriggio, in piazza Vetra, per poi spostarsi la sera in locali come il Rocket o il Black Hole e, occasionalmente, ai Durex Party, organizzati al Rock ‘n’ Roll. L’enorme diffusione di questo stile, però, è stata direttamente proporzionale alla velocità del suo declino. Già nei primi anni Dieci, quando gli emo kids non erano più tanto kids, questa tendenza cominciò a svanire senza lasciare traccia. I ragazzi tagliarono il ciuffo e tolsero il trucco e le ragazze lasciarono schiarire i loro capelli e cominciarono a riscoprire una femminilità più raffinata.
Gli emo, con la loro identità di genere fluida, sono stati il mio primo contatto con qualcosa che usciva dalla mia comfort zone. Con loro capii che l’espressione della propria estetica non è necessariamente collegata all’orientamento sessuale né, men che meno, al desiderio di creare “scandalo”. L’appiattimento di genere per questi ragazzi esprimeva amore per la musica e libertà di espressione personale.
PGOLD


Anche in questo caso il periodo era sempre lo stesso: la stagione 2007/2008. Uscendo per il centro di Milano era molto comune imbattersi in queste creature dalle sembianze quasi aliene che vagavano per Piazza Duomo in branchi consistenti. Anzi, nel momento esatto in cui si svoltava dal sagrato della Cattedrale per accedere a corso Vittorio Emanuele era possibile scorgere decine di ragazzi e ragazze con abbigliamento, trucco e parrucco estremamente simili, ammassati sui cosiddetti “muretti”, ovvero le rientranze in rilievo delle mura del Duomo. Sempre con gli occhi di un ragazzino innocente ero inizialmente intimidito e, al contempo, incuriosito da questi soggetti.
La mia curiosità derivava dal fatto che costoro, nonostante si atteggiassero da maschi alfa, si vestissero esattamente come le loro ragazze e le loro amiche. I grandi occhiali da sole bianchi, le collane di perle, i vestiti fucsia e il viso arancione per il troppo fondotinta erano elementi essenziali di questo stile, sia per i giovani maschi, sia per le giovani femmine.
Questa subcultura nasce a Milano e ha origine da una tipologia di serata che riscosse grande successo a partire dagli anni Novanta. Il tutto ha origine da un’idea di Cristian Cafarelli, in arte Obi Baby e Ivan Sala. I due danno vita a queste serate partendo da un’esigenza: creare eventi dedicati alla comunità gay milanese. Dice Obi Baby, in un’intervista rilasciata a Vice il 22 ottobre 2015: “In Italia non c’erano vere serate gay, c’erano le serate gay-fashion. Noi non volevamo essere finocchi fashion, volevamo essere finocchi a cui piace la musica.”
Obi Baby, via Vice.com PGold Flyer, La Paura
Da questo concetto le serate, così chiamate, “Pervert” cominciarono, dapprima in un locale per scambisti, in seguito in discoteche più celebri, come il De Sade e il Rolling Stone. Ed è proprio in questa cornice che la serata divenne conosciuta e si cominciò a parlare davvero di PGold (acronimo di Pervert Gold) e di pgoldini. Con la celebrità, tuttavia, il punto di partenza, ovvero quello di «far andare sulla cattiva strada il classico milanese impettito e per bene» cominciò a perdere valore. Il PGold iniziò ad essere frequentato da giovani ragazzini alla ricerca di musica elettronica e di trasgressione. Questa nuova audience, inoltre, cambiò l’identità alla serata, portandola sulle strade e sui social network dell’epoca.
Se, ovvero, il PGoldino delle origini poteva essere un personaggio anonimo che, per una sera al mese si piastrava i capelli e indossava le calze a rete, ora lo stile della serata si espande, in versione più soft, nelle strade del capoluogo lombardo in maniera virale. La nuova estetica è caratterizzata da un’apparenza gender fluid e da uno stile a metà tra il “tamarro” e l’emo: capelli piastrati e spike, maglietta aderente occhiali da sole e collana di perle. Uno degli elementi distintivi era sicuramente la sessualità poco definita di questi ragazzi che, tuttavia, era usata come strumento di trasgressione e di scandalo, come per assecondare e mettere in risalto il lato più perverso e scabroso di ogni persona. Con il cambiamento della tipologia di serate, il PGold cominciò a perdere consensi tra i frequentatori iniziali, e anche il giovane pubblico cominciò a abbandonare questo tipo di eventi, portando lo stile in serate più normali e perenni. Sempre Obi Baby afferma che, in questo modo, quello che era nato come uno spettacolo per un pubblico adulto è diventato una performance dal basso o un “rito” collettivo, e il PGold per come viene ricordato oggi dai più è, nei fatti, l’essenza della morte del PGold.
Nonostante tutto, nel 2017 le serate Pervert, dopo qualche anno di assenza dalle scene, sono ritornate nelle discoteche milanesi e, con Obi Baby in consolle e un netto rebranding che punta al ritorno delle origini, il PGold è risorto e, siamo sicuri, tornerà a far parlare di sé.
GABBER


Entrai in contatto con questa subcultura relativamente tardi, quando ormai il contorno variegato dei giovani milanesi cominciava a normalizzarsi. Dal mio punto di vista questi ragazzi e ragazze caratterizzati da un’estetica associabile agli skinhead trasmettevano un sostanziale senso di disagio, comunicato dall’apparenza aggressiva di entrambi i sessi. Anche in questo caso il concetto di gender fluid era estremamente presente anche se in controtendenza rispetto a quelli precedentemente citati. Non erano i ragazzi ad avvicinarsi a uno stile prettamente femminile, ma viceversa. In questo senso era possibile incontrare ragazze vestite con un abiti informi e completamente rasate, mantenendo magari un accenno di femminilità in una frangia cortissima.

Nonostante la mia conoscenza tardiva del trend, questa sottocultura iniziò a diffondersi ben prima di tutte le sue contemporanee. Il gabber, infatti, ha origine in Olanda nei primi anni Novanta, approdando in Italia quasi subito, ovvero intorno al 1992, grazie a DJ della scena hardcore e per mezzo di trasmissioni radiofoniche, come il “Maniac Monday”. La grande espansione del movimento si deve a “The Stunned Guys” che nel 1996 fondano la Traxtorm Records, etichetta italiana che definisce, con la sua annuale produzione, il mainstream del movimento musicale, dandogli la possibilità di diffondersi.
Già a partire dai primi anni Duemila, tuttavia, il movimento comincia a perdere l’ideologia iniziale collegata alla musica hardcore, per diventare un fenomeno perlopiù di costume. Ed è proprio nel sostrato sociale dei giovani millennials milanesi che questo genere prende piede. Numerosi gabber invadevano le zone attorno a via Torino e si ritrovavano alle serate techno o hardcore del Bolgia o del Matrix. Nonostante la diffusione inferiore rispetto agli altri generi, i gabber non si sono estinti completamente. Anzi! Nell’ultimo periodo, con il ritorno sulle passerelle dello sportswear anni Novanta, il movimento gabber e hardcore degli inizi è stato d’ispirazione per alcuni designer, in un processo bubble-up, molto virtuoso.
Primo su tutti Gosha Rubchinskiy, giovane designer russo, che nella collezione primavera/estate 2017 ha creato una linea menswear ispirata al mondo hardcore. I giovani modelli sfilavano con abbondanti capi sportivi riportanti i nomi di brand sportswear, come Fila, Sergio Tacchini o Robe di Kappa, molto utilizzati negli ambienti hardcore e gabber degli inizi. Anche il designer belga Tom Nijhuis disegna, sempre lo stesso anno, una collezione donna dichiaratamente ispirata al mondo gabber facendo posare una modella con la testa quasi completamente rasata e inserendo nello styling le scarpe Nike Air Max, quasi un’icona, insieme alle Buffalo Shoes, di quella sottocultura. Infine anche Dior per la collezione Autunno/Inverno 2017 crea alcuni capi ispirati al mondo techno e gabber, creando la celebre collezione Hardior
Insomma. Milano, nel corso degli anni Duemila, era una città veramente diversa. E soprattutto, bisogna dire, che ai ragazzi dell’epoca importava veramente poco. Importava poco del giudizio delle persone e importava ancor meno dell’idea di essere “socialmente” accettabili. Era qualcosa che non aveva assolutamente niente a che vedere con una qualche rivoluzionaria ideologia politica. C’entrava con un concetto tribale di appartenenza. Appartenenza a un gruppo, a una zona della città, a dei locali in cui andare a divertirsi la sera insieme ai membri del proprio clan. Quest’idea di tribù, inoltre, era talmente forte che andava addirittura a sbiadire il senso di genere sessuale. Era molto più importante apparire emo, pgoldino o gabber, piuttosto che apparire maschio o femmina. Chi come me è cresciuto negli anni Duemila, ricorda quel periodo con una sensazione a metà tra l’affetto e l’autoironia. Perché in fondo fa ridere pensare che prima di uscire passavamo ore in bagno tra piastra, trucco e vestiti. A pensarci meglio, però, quegli anni sarebbero da annoverare tra quelli in cui la libertà sessuale è stata più forte in assoluto perché, proprio lì, sono saltate tutte le norme di abbigliamento che determinano il genere e l’orientamento sessuale. Ma il punto è proprio questo: forse il genere e l’orientamento sessuale non sono affatto un qualcosa di visibile dall’abbigliamento, ma sono qualcosa che riguarda la propria identità e interiorità. Per questo motivo questo periodo è stato importante come turning point nella mente dei millennials, una generazione che, per definizione è open-minded. E a questo periodo la moda, per ora, non ha ancora guardato seriamente ma, forse, è solo questione di tempo.