Rebranding case history: il fallimento rock ‘n’ roll di Brioni

“It is about timelessness, everything that I wear, I can wear anytime. Tomorrow, yesterday, ten years ahead”
Traduz. Si tratta di amare capi senza tempo. Tutto quello che indosso, lo posso indossare sempre. Ieri, oggi e tra dieci anni
TOSHIKO MORI

Sarà di certo capitato a tutti di provare questo tipo di sensazione: sentire un capo che si indossa come qualcosa di eterno, che non passerà mai di moda.
Quei capi non ci parlano di mondi lontani, di paesi esotici o di ispirazioni “retromani”. Quegli oggetti ci comunicano raffinatezza, eleganza, artigianalità e legame col territorio. Senza pretese. Nulla di più.
Numerosi marchi, italiani ed internazionali, hanno reso questo concetto, il timeless, il loro main topic, attorno al quale costruire l’identità di marca. Quest’idea è, secondo molti, la definizione vera e propria di lusso, quello con la “L” maiuscola, che non necessita di artifici o immagini ridondanti per essere desiderato. In un’intervista sul numero di marzo 2017 di Elle Italia, Tomas Maier, l’allora direttore creativo di Bottega Veneta afferma: «Il lusso più grande è qualcosa che a stento si può toccare, un’emozione da trattenere. In un vestito, in un oggetto, lusso è un dettaglio che puoi vedere molto, molto vicino”. Un dettaglio, dunque. Semplice. Silenzioso.
Quest’idea, seppur efficace, non gode di un mercato vastissimo. Difficilmente, infatti, questo tipo di modello riesce ad attrarre consumatori under-30, ancora ben lontani da quel mondo fatto di “fine leather”, “made to measure”, “bespoke” e i cui cartellini non ci pensano proprio di scendere sotto i “-mila euro”. Loro preferiscono acquistare Gucci e le sue scintillanti api e serpi cucite su stampa Guccissima. È all’ultimo grido, è creativo ed è Gucci. E si vede.

Se si prova, tuttavia, a chiedere a (tutte) le ragazze in ciabatte pelose cosa desiderino acquistare appena avranno i soldi per farlo, la prima cosa che ci si sentirà rispondere sarà: La Birkin di Hermès, la 2.55 di Chanel, la cabat di Bottega Veneta e così via. Timeless, dunque, eleganza e storia della moda. Marchi come questi non hanno bisogno, né vogliono distanziarsi da quell’immagine storica e senza tempo che li ha resi grandi. Questo perché, probabilmente, la ventenne che oggi apprezza le appariscenti creazioni di Alessandro Michele, domani comprerà la Kelly, magari abbinandola a un prezioso golf in vicuña di Loro Piana.
Hermés Birkin; via hermes.com Chanel 2.55; via womoms.com Bottega Veneta Cabat; via bottegaveneta.com
Succede, tuttavia, che questi brand decidano, a un certo punto, di distanziarsi dal proprio heritage storico e dalla produzione di articoli “timeless” per spostarsi verso una realtà più “moderna”, nel tentativo di avvicinarsi a un pubblico giovane.
È il caso dello storico marchio romano Brioni.
IL CASO BRIONI

Brioni è una casa di moda italiana nata a Roma nel 1945, grazie all’intraprendenza di Nazareno Fonticoli e Gaetano Savini, decisi a far rinascere la tradizione sartoriale italiana nell’immediato dopoguerra. Il nome della sartoria, in origine Atelier Brioni, è ispirato all’omonimo arcipelago dalmata, di gran moda nel periodo tra le due guerre.

La maison trova un successo quasi immediato grazie soprattutto a due importanti propellenti. Il primo è la spinta internazionale della città di Roma, grazie allo sbarco di importanti produzioni americane nella Capitale. Il secondo è la grande rivalutazione del made in Italy nel periodo post-bellico, grazie alla prima sfilata di Palazzo Pitti del 1951. L’azienda si dimostra abilissima, in questa cornice, a sfruttare il momento, vestendo prima lo star system hollywoodiano, cucendo anche gli abiti di James Bond negli storici film di 007, e presentando poi la propria collezione in passerella nel 1952, ponendosi come pioniere delle sfilate di moda maschile. Sull’onda del successo, l’atelier romano si espande aprendo, nel 1960, la prima fabbrica situata nella città natale di Fonticoli, Penne, suggellando un legame indissolubile con la piccola località abruzzese. Per l’occasione la maison crea la linea Brioni Roman Style, cominciando a produrre collezioni sartoriali ready to wear, introducendo così il concetto di prêt-couture.

Il 1980 costituisce una data fondamentale nella storia della maison romana quando, in un periodo in cui il mestiere del sarto iniziava a perdere di importanza, viene fondata la scuola di sartoria dell’azienda, strutturata con corsi quadriennali con l’obiettivo di trasmettere alle nuove generazioni la tradizione di un mestiere ormai prossimo all’oblio. Anche nel 1990 la maison fa un salto di qualità quando, dopo l’acquisizione di diverse realtà sartoriali minori, crea il gruppo Brioni, costituito da otto stabilimenti con circa 1700 addetti.

Il marchio, nel corso degli anni ha vestito moltissime stelle dello spettacolo e capi di stato, come Clark Gable, John Wayne, Henry Fonda, Pierce Brosnan, Nelson Mandela e Barack Obama.
Clark Gable in Brioni John Wayne in Brioni Henry Fonda in Brioni Pierce Brosnan in Brioni Nelson Mandela in Brioni Barak Obama in Brioni
L’anno che, tuttavia, costituisce il punto di svolta della storia recente del brand è il 2012, quando viene acquisito dal gruppo francese Kering.
Sotto la nuova gestione, il 26 marzo 2016 viene nominato direttore creativo Justin O’Shea, buyer dell’e-commerce mytheresa.com.

O’Shea, guru della moda e presenza fissa in prima fila alle sfilate delle fashion week di Milano, Londra, Parigi e New York viene scelto con l’obiettivo di restituire lustro a Brioni, un marchio che, ormai, aveva perso molto interesse presso stampa e addetti ai lavori e che veniva considerato quasi una sartoria per re e capi di stato, più che una realtà aziendale della moda italiana. Serviva, dunque, un direttore creativo che fosse più uno stylist che uno stilista vero e proprio. Stile, certo, ma che fosse ben targettizzato: l’obiettivo, oltre quello di riacquisire l’attenzione ormai perduta della stampa e di attirare un nuovo target, che comprendesse l’intera categoria dei millennials e centennials. In parole povere, Il nuovo cliente Brioni doveva essere sia lo studente universitario appassionato di moda, sia il trenta/ trentacinquenne in carriera con un ampio potere di spesa. Tutto ciò, senza perdere il cliente classico: over 50, amante del “su misura”, e della tradizione sartoriale italiana. Tante cose, dunque, dovevano cambiare e nulla, allo stesso tempo, doveva essere diverso. Era necessario modificare il concept, in maniera tale da renderlo più appetibile ai giovani, ma la brand identity e il mondo Brioni dovevano rimanere tali.
Con questi presupposti il rebranding prende il via. La prima mossa del nuovo direttore creativo è quella di ridisegnare il logo senza, però, distanziarsi dalla tradizione. Il carattere corsivo e le linee curve che hanno caratterizzato il lettering dal 1986 vengono sostituite da un font gotico, decisamente più spigoloso e “rock ‘n’ roll”, chiaro richiamo al primo logo Brioni del 1945.


Questo tone of voice viene prontamente confermato dalla scelta dei nuovi ambassador di marca: i Metallica, gruppo heavy metal statunitense del quale O’Shea è grande fan. Gli scatti della campagna, realizzati dal fotografo Zackery Michael mostrano i quattro componenti della band in una posa a mo’ di Bohemian Rhapsody, con indosso i classicissimi smoking bespoke.
Anche nella sfilata autuno/inverno 2016-17 l’identità della nuova Brioni viene messa in luce. Modelli e modelle si intervallano accompagnati da una musica aggressiva e ritmica sfilando in una scenografia che richiama molto l’epico mondo rock anni Settanta. Rock, dunque. Ma anche classe e rottura degli schemi. Questa l’immagine di Brioni sotto la direzione O’Shea. Sicuramente, uno degli obiettivi iniziali è stato raggiunto: l’attenzione da parte della stampa. La trepidante attesa da parte di tutte le testate giornalistiche è esplosa in concitati, e a tratti esaltati, commenti riguardo le scelte del nuovo creativo.
Obiettivo raggiunto, sembrerebbe.
Non proprio.
Nell’ottobre successivo, infatti, Justin O’Shea viene sollevato dal ruolo di direttore creativo dopo soli sei mesi, e un’unica collezione.
A quel punto… via con i commenti!
Molti magazine si scagliano contro l’ex buyer australiano definendolo «la dimostrazione che affidare un ruolo nodale ad un non professionista solo per la fama digitale non è decisione avveduta» (Angelo Fiaccavento, Armani dà lezioni di haute couture, Il Sole 24 Ore, 6 luglio 2016).
Nessuno, dunque, si era preoccupato di capire come il cliente finale del marchio avrebbe percepito i cambiamenti. Mario Ortelli, analista del settore lusso alla Stanford C. Bernstein ha dichiarato in un’intervista rilasciata a Business of Fashion il 4 ottobre 2016: «Brioni ha cercato di reinventarsi per intraprendere un percorso totalmente diverso dal suo passato. Ciò ha comportato il cambio del logo, per essere più cool. È stato un cambiamento importante che probabilmente il consumatore non ha apprezzato. Il fatturato del marchio poi non è stato soddisfacente. Quando un marchio non funziona bene, una delle cose che probabilmente si deve cambiare è il direttore creativo. Come per una squadra di calcio». Secondo Paolo Ferrarini, cool-hunter, giornalista e ricercatore, intervistato a questo proposito dalla redazione, il risultato non è stato granché capito da parte del pubblico. In questo periodo, infatti, prosegue Ferrarini, «tutti i marchi non stanno assumendo delle superstar come direzione creativa, ma gente brava. Al cliente finale che tu sia un nome importante non interessa molto». L’intervistato prosegue, poi, sottolineando come il bisogno di creare coolness abbia portato il brand su una strada del tutto sbagliata: il logo, ad esempio, è stato ridisegnato con uno stile molto simile a quello del primo atelier Brioni aperto a Roma nel 1954. L’audience, però, non l’ha capito, reputando un carattere gotico come qualcosa di poco interessante per il marchio. La scelta dei Metallica come ambassador e del mondo rock per la comunicazione, inoltre, è qualcosa che «è rimasto abbastanza invisibile. Rompeva gli schemi per il marchio Brioni, certo, però, nel mondo della moda è un sistema di gusti già visto… si pensi, ad esempio, a John Varvatos».
L’errore della gestione O’Shea è stato, forse, proprio l’urgenza del cambiamento: porsi, da un giorno all’altro, come marchio avantgarde e non più timeless. Perché, di fatto, ampliare la fetta di mercato è possibile, ma è necessario, in ogni caso, mantenere intatta l’immagine di marca.
Alessandro Balossini Volpe, business management consultant, intervistato dalla redazione, afferma quanto segue: «A livello di immagine era possibile, di fatto, arrivare ad acquisire la fetta di mercato dei giovani ricchi dai paesi emergenti interessati al mondo della moda. Perché se vendi il cappotto di vicuña da 25.000€, potrai benissimo vendere il cappotto di cashmere con la fodera in zibellino a questo genere di persone, però senza bisogno di snaturarti. Il loro DNA di marca non ha nulla a che vedere con i Metallica, e se cerco di andare lì alla fine divento un guscio vuoto. O meglio, una marca nota che però non ha più niente a che vedere con il suo passato. Non mi sembra che il mercato del lusso funzioni così: credo che le marche, soprattutto del lusso, debbano essere coerenti con la propria essenza, o non hanno ragione di esistere».
Ha davvero senso, dunque, cercare di ringiovanirsi? Certo, ma bisogna fare attenzione. È necessario, soprattutto, capire quale sia il modo migliore per rendere più giovane un marchio del lusso. Perché se per i brand “fashion” è abbastanza facile creare contenuti di rottura e sperimentare nuovi linguaggi, per i marchi del lusso il processo non è affatto immediato: bisogna fare i conti con un target molto rigido e difficile da accontentare e, soprattutto, con il fatto che marchi timeless e bespoke sono costantemente su una sottile linea che separa il concetto di “elegante” dal concetto di “vecchio”. Specialmente per quanto riguarda il menswear è necessario attuare strategie comunicative che impediscano che il brand venga percepito come “noioso”.
Senza, esagerare, però.
Un marchio per avere successo commerciale e per essere appetibile a un pubblico più vasto non deve mutare la propria essenza, perché se un marchio tradisce la propria identità, tradisce anche il pubblico che, in quell’identità aveva creduto e riposto i propri valori. Brioni era, infatti, il marchio di James Bond, ma anche quello di Mandela, il brand dell’eleganza maschile per eccellenza con richiami al patinato mondo del cinema e all’età d’oro di Cinecittà e della “Dolce Vita”. Era un brand con un’identità realmente molto forte che è stata un po’ messa in crisi da scelte stilistiche ed estetiche decisamente fuorvianti.
Ma cos’è Brioni oggi? La mancata trasparenza dopo la crisi d’identità ha sicuramente confuso un po’ il consumatore. Le ultime scelte, però, hanno caratterizzato e sottolineato l’identità rinnovata di questo brand. Un’identità più leggera, forte delle proprie tradizioni, che reinterpreta il mondo del marchio sottolineandone gli aspetti più iconici e reinterpretandone i linguaggi in maniera contemporanea.
Quindi serve davvero tentare di ringiovanirsi? Forse per marchi timeless posizionati nel settore del lusso, no. O meglio: bisogna rendersi appetibili e attrarre il pubblico giovane, senza cercare di diventare come loro. La ragione per cui la millennial contemporanea desidera la Birkin di Hermès risiede nel fatto che quell’oggetto è sinonimo di eleganza intramontabile e di lusso e perciò non ha mai avuto bisogno di grandi restyling per risultare appetibile.
E forse bisogna pensare proprio in questo senso.
Non è più l’età il criterio di segmentazione. Le boutique di Brunello Cucinelli, Loro Piana e Bottega Veneta sono sempre più affollate di ragazze e ragazzi trentenni che comprano un maglione o una borsa di un certo tipo sentendo il lusso nella qualità dei materiali, nella finitura e nello stile understated.
Quindi: cos’è giovane? Cos’è vecchio? Chi lo sa!